sabato 25 giugno 2016

“La Brexit può mettere a rischio anche l’euro”. Intervista all'economista Emiliano Brancaccio


Professore, i sondaggi e i mercati davano per scontata la vittoria del “no” all’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. L’onda della Brexit invece non si è fermata. Che lezione possiamo trarre da questo esito dai più definito inatteso?
«Non era inatteso per tutti. I sondaggi, in casi simili, non aiutano. Quanto ai mercati, smettiamola di pensare che gli speculatori siano dei veggenti: come diceva il premio Nobel James Tobin, al di là di rare eccezioni di solito quelli non sanno guardare oltre i prossimi dieci minuti».

Il “leave” ha vinto anche nel collegio elettorale della deputata laburista Jo Cox, il cui omicidio si pensava avrebbe spostato consensi a favore dell’Unione...
«È stato un delitto atroce che ha inquinato gli ultimi giorni della campagna referendaria. Ma trovo ingenuo ritenere che il corso degli avvenimenti storici possa esser deviato da singoli episodi, per quanto efferati: la guerra dei trent’anni non fu scatenata dalla defenestrazione dei governatori imperiali, e il primo conflitto mondiale non fu certo causato da Gavrilo Princip. La verità è che la vittoria della Brexit è solo uno degli innumerevoli riflessi di una tendenza destabilizzante più profonda, di lungo periodo, nella quale i fattori economici hanno un ruolo importante».

La crisi, la disoccupazione, l’immigrazione anche interna all’Unione Europea?
«L’immigrazione è stata al centro del dibattito referendario, i partiti xenofobi ci hanno sguazzato e ci guadagneranno sul piano politico. Ma la crescita dei flussi migratori, a ben guardare, è solo il sintomo di un problema più di fondo: un’eccezionale divaricazione tra i tassi di occupazione anche nei diversi Paesi dell’Unione europea, che costringe tanti lavoratori a spostarsi dalle aree in crisi verso quelle caratterizzate da andamenti economici migliori o comunque meno disastrosi».

Quindi tra le cause di fondo della Brexit ci sarebbero gli squilibri economici tra i paesi dell’Unione?
«Ovviamente sì. Gli opinionisti che in queste ore riducono la questione a una querelle interna ai Tories, tra Cameron e Johnson, dovrebbero dedicarsi al gossip, non alla politica. Chi vuol capire davvero cosa sia successo dovrebbe interrogarsi sui motivi per cui pezzi rilevanti della società britannica, rappresentativi dell’industria del Nord e non solo, hanno scelto di andare contro la City di Londra aderendo alla campagna per l’uscita dall’Ue. Una delle ragioni è che in Gran Bretagna si sta diffondendo una crescente preoccupazione verso la tendenza del Paese ad importare molti più beni e servizi di quanti ne riesca ad esportare. Finora questo deficit è stato coperto con ingenti prestiti di capitale dall’estero, ma una tendenza del genere non può durare all’infinito e prima o poi sfocerà in una crisi commerciale. Molti considerano il deficit britannico come uno specchio dell’enorme surplus commerciale tedesco ma ritengono che la mera svalutazione della sterlina sarebbe insufficiente a rimettere in equilibrio gli scambi: per questo vedono la Brexit come un’occasione per intervenire, al limite anche rivedendo gli accordi commerciali con la Germania e il resto della Ue».

Dobbiamo cioè aspettarci che la Gran Bretagna possa virare verso la via del protezionismo contro la Ue?
«Non lo sappiamo, è presto per dirlo. Di certo, negli ultimi tempi nel Regno Unito circolano idee che non sarebbero piaciute a David Ricardo, il grande teorico del libero commercio. Ma non è solo un problema britannico: la Commissione europea ha calcolato che dal 2008 ad oggi sono state introdotte più di ottocento nuove misure protezionistiche a livello mondiale. È un effetto degli squilibri causati dal liberismo sfrenato degli anni passati e della grande recessione che ne è seguita. Che ci piaccia o meno, la crisi della globalizzazione fa parte di questa fase storica, e il travaglio del processo di unificazione europea costituisce un esempio emblematico».

Il leader dei Labour, Jeremy Corbyn, aveva sostenuto la campagna per il “No” all’uscita. A quanto pare molti lavoratori, elettori storici del partito laburista, gli sono andati contro.
«Non amo essere irriguardoso, ma temo che gli eredi della tradizione del movimento operaio non ci stiano capendo molto di questa fase dello sviluppo capitalistico».

Però Corbyn ha conquistato il Labour proprio chiedendo di archiviare le politiche liberiste figlie della “Terza via” blairiana, che in Italia sono invece ancora un modello, rinnovato, per il Pd di Matteo Renzi.
«Vero, ed è stata una novità positiva nella visione laburista della politica economica. Ma bisognerebbe rendersi conto che le svolte interne che non siano accompagnate da una visione dei rapporti internazionali realistica e adatta ai tempi, rischiano rapidamente di entrare in contraddizione e di esaurire la loro forza. Il punto da comprendere è che il regime di accumulazione del capitale sta cambiando, c’è una lotta in corso tra le tendenze liberoscambiste del grande capitale e le pulsioni protezioniste dei proprietari più piccoli e maggiormente in affanno. Invece di incunearsi in questo scontro con un punto di vista autonomo e delle proposte originali, gli esponenti della sinistra si gettano ogni volta tra le braccia dell’una o dell’altra parte in causa come dei pugili suonati. Per il lavoro e per le sue residue rappresentanze è un’epoca durissima, ma proprio per questo forse sarebbe ora di avviare un lavoro collettivo per rimettere in moto il pensiero critico e allacciarsi alla realtà del tempo presente».

L’uscita della Gran Bretagna dall’Unione potrebbe creare problemi anche alla sopravvivenza dell’euro?
«Vedremo, di sicuro questo episodio aprirà un’altra crepa sulle mura del fortino monetario creato dalla Bce. Se ci saranno forti ripercussioni sul settore bancario la situazione potrebbe precipitare anche nei rapporti interni all’eurozona».

All’inizio della crisi lei propose uno “standard retributivo” che interrompesse la competizione salariale al ribasso e aiutasse a ridurre il surplus tedesco e a riequilibrare i rapporti interni all’eurozona. Funzionerebbe ancora, o per fermare l’onda del Brexit è troppo tardi?
«L’idea di uno “standard del lavoro sulla moneta” resta valida in generale, come tassello di una possibile visione lavorista della crisi internazionale. Ma come possibile salvagente per l’euro sarebbe tardiva. Allo stadio in cui siamo i problemi dell’eurozona si sono incancreniti. Con il governo tedesco ostile a qualsiasi mutualizzazione dei debiti, l’Unione non dispone di strumenti adeguati per affrontare una nuova crisi bancaria. Non so se sarà la Brexit, ma l’intero progetto di unificazione europea potrebbe cadere ormai anche con una sola spallata».

giovedì 3 aprile 2014

Approvato il DDL sulla finta abolizione delle Province


Ecco la verità sul DDL sulla finta abolizione delle province

1. Le province non sono abolite. È la prima illusione della propaganda: la legge non elimina affatto le province, che restano operanti; un po' ammaccate, ma tutte le 110 province italiane rimangono in vita, tranne quelle che assumono le vesti di città metropolitane.

Infatti, le province si estinguono solo dove si prevede subentrino le famigerate città metropolitane; ma, di fatto, finiscono sostanzialmente solo per cambiare nome, poiché le città metropolitane acquisiranno tutte le funzioni oggi di competenza delle province, aggiungendone poche altre.

E come sono state istituite queste nove città metropolitane (Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria)? Sulla base di criteri interamente politici. .Nessun riferimento alla struttura urbana, come dimostra il caso di Reggio Calabria. A queste si aggiungono Roma capitale e le cinque già istituite dalle Regioni a statuto autonomo (Palermo, Messina, Catania, Cagliari e Trieste). Il problema - uno dei tanti, a dire il vero - è che regna grande la confusione su quali saranno le competenze dei nuovi enti locali, dunque forte il rischio di creare sovrapposizioni (o conflitti) di competenze, come anche quello di dare nuove funzioni senza risorse adeguate.

2. Cambierà solo la leadership, in quanto il sindaco metropolitano coinciderà con quello del capoluogo. Con evidente espropriazione per i cittadini della provincia della rappresentatività elettorale, perché gli elettori non potranno scegliere i loro amministratori. Il presidente di provincia (perchè le province non vengono abolite) invece sarà eletto dagli e tra gli amministratori dei comuni della provincia (elezione di secondo livello).

3. Si infrangono principi giuridici consolidati nel nostro ordinamento di incompatibilità e di divieto di cumulo di cariche pubbliche. Sindaci dei comuni fino a 15.000 abitanti potranno candidarsi al Parlamento Europeo e Parlamento nazionale.

4. La vulgata diffusa dopo che Renzi ha silurato Letta è stata che il provvedimento "svuota province" sarebbe stato una fonte inesauribile di risparmi. Peccato che nè la legge, né le relazioni illustrativa e tecnica quantifichino anche un solo centesimo di risparmio.

a) Innanzitutto, né dipendenti - Cottarelli permettendo - né funzioni delle province 2.0 scompaiono e, di conseguenza, non scompaiono neanche i costi relativi, la stragrande maggioranza delle spese di questo livello di governo. E siccome le province rimangono in vita, anche se la dirigenza politica è espressa in modo indiretto, i cosiddetti costi di funzione, cioè strutture, scrivanie, telefoni, rimangono altissimi.

b) Quello che si risparmia è solo il finanziamento degli organi istituzionali (le indennità del presidente, assessori e consiglieri e i vari rimborsi connessi alle loro attività), che vengono aboliti, insieme alle spese delle relative consultazioni elettorali. In realtà, l'unica rilevazione realmente ufficiale è quella della Corte dei conti (inspiegabilmente ignorata da Delrio), secondo la quale i risparmi sono molto dubbi, mentre certi sono, anche se non quantificati, i costi di un simile stravolgimento. Il risparmio sugli organi di governo, per altro, sarebbe di soli 35 milioni: a tanto, infatti, ammonterebbe l'onere per consiglieri, assessori e presidenti provinciali, per effetto delle riforme dell'estate del 2011, che avevano previsto la drastica riduzione del numero degli amministratori provinciali.

5. La vera chicca, però, è che la legge aumenta il numero di consiglieri comunali (fino a 26.000 in più) e degli assessori (fino a 5.000 in più); il Governo si è impegnato a rendere questa operazione a costo zero, ma come si possono aumentare le cariche senza aumentare le spese?

Consiglieri e assessori lavoreranno gratis o ci saranno circa 31.000 stipendi in più da pagare? e se pure lavorassero gratis, si avranno 31.000 persone che faranno aumentare i cosiddetti costi di funzione, cioè strutture, scrivanie, telefoni.

LADRI, USCITE DA QUEL PARLAMENTO!

Al peggio non c'è limite, ma andando avanti di questo passo lo raggiungeremo presto. 

Il video che vedete sopra è stato girato in Parlamento, quello italiano ovviamente. Le immagini riprese dalle telecamere ci mostrano una scena comune quanto vergognosa. 

La senatrice Fabbri del Partito Democratico vota per il collega Esposito, anch'egli del Partito Democratico. Il tutto avviene in pochi istanti. Nessuno dice niente, tutto normale.

Un cittadino normale verrebbe perseguito penalmente, perchè i pianisti al parlamento sono dei truffatori come chi timbra il il cartellino di un collega assente. Vale per tutti i dipendenti pubblici, ma per loro mai!


Il 12 aprile a Roma la prima manifestazione contro Renzi: "Assediamo il governo Renzi, ribaltiamo il Jobs Act"

Le giornate del 18 e del 19 Ottobre 2013 hanno rappresentato un importante punto di partenza di un percorso che ha notevolmente rafforzato le lotte nei territori. La volontà di rilanciare, proprio a partire dalla grande ricchezza dei conflitti prodotti, un'agenda indipendente e viva, ha trovato nell'assemblea di oggi il consenso di tutti e tutte. In particolare, le differenti esperienze sociali e lotte che hanno prodotto la sollevazione autunnale vogliono misurarsi, assumendosi fino in fondo tutte le responsabilità del caso, con la costruzione di uno spazio comune di conflitto in grado di andare nuovamente allo scontro con le politiche di austerity dettate dall'Unione Europea ed alla Troika ed eseguite dai governi nazionali.
La piazza meticcia di Porta Pia ha espresso un metodo e delle pratiche dalle quali non si può e non si deve più arretrare. Partendo anche da questa considerazione, prende corpo la proposta di una manifestazione nazionale a Roma per il 12 Aprile prossimo. Un corteo che torni ad assediare i palazzi del potere, ponendo sempre con maggiore forza ed incisività il tema dell'uso delle risorse, accanto a quello, centrale, del reddito.
La gestione del denaro e del reddito (che approfondiremo come discorso politico comune e proposta di pratiche già nel convegno di Bologna del 15 Febbraio), saranno al centro delle mobilitazioni e delle lotte che , sin dalle prossime settimane, costruiranno la manifestazione del 12 Aprile e la successiva contestazione al vertice europeo sulla disoccupazione giovanile previsto nei prossimi mesi, forse nel mese di Luglio. I movimenti di lotta per la casa, student*, precar*, migrant*, lotte territoriali, resistenze operaie, sindacati conflittuali*, centri sociali dentro questo percorso multiforme e comune, intendono realizzare l’accumulo di forze necessario a rovesciare un modello di sviluppo basato sempre più sul lavoro precario, sulle privatizzazioni, sullo sfruttamento, la devastazione dei territori, il saccheggio dei beni comuni. Questo modello trova nell' Expò di Milano una rappresentazione plastica di come attraverso il governo della crisi si voglia imporre a tutti e tutte, in maniera sempre più pesante e totalizzante, le leggi del mercato e del profitto. Dentro questo ragionamento la proposta di Job Act avanzata da Matteo Renzi e dal PD, rappresenta una dura riproposizione della precarietà e dello sfruttamento come unico orizzonte possibile. Come pure l'accordo sulla rappresentanza sindacale raggiunto tra Confindustria e CGIL , CISL e UIL, testimonia l'instaurazione di un vero e proprio regime autoritario sui posti di lavoro, con la negazione di qualsiasi spazio di agibilità e la soppressione stessa della voce dei lavoratori e delle lavoratrici. In generale, appare necessario soprattutto determinare una rottura netta con il ricatto posto in essere attorno alla questione della produttività e della presunta possibilità di generare nuovi posti di lavoro. Ricatto che spinge le nostre vite a piegarsi, in una spirale senza fine, agli interessi dell’impresa e del capitale e dal quale dobbiamo sottrarci attraverso nuovi sentieri e pratiche di riappropriazione. In questo quadro, risulta inoltre necessario andare oltre la guerra tra poveri tra lavoro dipendente e piccolo lavoro autonomo, rovesciando il discorso imposto dall'alto, per una tassazione dei grandi patrimoni e della rendita finanziaria e immobiliare.
La giornata del 1° Maggio viene assunta come centrale, con l'apertura di un conflitto generalizzato contro l'Expò, santuario della precarietà e della cementificazione e con la messa in mora del concertone di piazza san Giovanni a Roma gestita dal consociativismo sindacale, sottraendo una importante piazza ad una vergognosa mercificazione dei diritti. Una giornata che vogliamo allo stesso tempo inclusiva e conflittuale, in connessione con le molteplici piazze europee e globali.
La caratteristica meticcia dei nostri percorsi, il protagonismo diretto dei migranti e dei rifugiati, oltre e contro qualsiasi logica buonista ed assistenziale, trova una sua forte espressione nelle lotte per la chiusura dei Cie e dei Cara, per la libertà di movimento e la rottura fra qualsiasi legame fra soggiorno e lavoro, per l’uguaglianza ed i diritti contro ogni forma di razzismo e fascismo. La manifestazione del15 Febbraio per la chiusura di Ponte Galeria, quella del 16 Febbraio contro il CARA di Mineo e le iniziative del primo Marzo diventano, così, tappe costituenti della nuova sollevazione e dei percorsi di trasformazione del nostro presente. La cancellazione della legge Bossi – Fini e della Turco Napolitano, rappresentano elementi di programma decisivi come la garanzia del reddito, il diritto alla casa, la ri -pubblicizzazione dei servizi essenziali. Viene assunto, inoltre, come passaggio comune, lagiornata di lotta contro la repressione del movimento No Tav prevista per il 22 Febbraio e la costruzione di un convegno e di una manifestazione a carattere nazionale, per il 14 ed il 15 Marzo a Roma, sul tema della repressione delle lotte sociali.
Accanto alle principali tappe di mobilitazione e conflitto dei movimenti contro i “signori” della precarietà e dell’austerity, si articoleranno, su tutto il territorio nazionale, preziosi momenti di confronto e di approfondimento che mostrano la misura della grande effervescenza esistente nei territori. Fra questi ricordiamo, il prossimo 15 febbraio a Bologna sul tema dell’uso delle risorse; il 21 febbraio a Milano per discutere di utenze, tariffe, distacchi e morosità; il primo e due marzo a Napoli incontro nazionale della rete Abitare nella crisi; il 4,5 e 6 aprile di nuovo a Napoli un meeting europeo sui temi dei beni comuni e del reddito come claims di movimento contro l’austerity e le retoriche della crescita.
Attraverso questi ed altri appuntamenti, dovrà articolarsi, verso la manifestazione del 12 Aprile e le successive mobilitazioni, un processo di lavoro condiviso e comune che allo stesso tempo valorizzi e dia nuovo impulso alle lotte ad ai processi di riappropriazione.

ASSEMBLEA NAZIONALE CONTRO L'AUSTERITY